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POPEYE, Ritratto di un eroe di cartone

AHOY!


Ritratto di un eroe di cartone
come simbolo letterario


Un critico francese ha scritto che Braccio di Ferro (Popeye) è «
Rabelais alla potenza Kafka». Sarà il caso di insinuare ancora una volta, indulgendo a una generalizzazione scanzonata, che i critici francesi (specialmente quelli delle cosidette «arti popolari») hanno una certa tendenza all'entusiasmo, all'affermazione lapidaria, alla proposizione esclamativa? Il punto, forse, non è neanche questo. In realtà, la boutade di quel critico francese non è un giudizio avventato, è solo una frase che, come ognuno vede, non significa assolutamente nulla.

Col suo nome originario di Popeye, Braccio di Ferro ha invece avuto la fortuna di attirare l'attenzione di un critico ben altrimenti savio e acuto,
George Orwell. L'eroe creato da Segar si trova citato in più di un luogo della vasta produzione saggistica orwelliana. Non che l'autore di 1984 si dedicasse a vere e proprie esegesi fumettologiche. È anzi probabile che, più degli albi di Segar, egli avesse in mente i film di animazione realizzati da Fleischer, ben noti al pubblico inglese degli anni trenta. Ciò non toglie che Orwell abbia colto con la sagacia che gli era abituale lo spirito del personaggio, il senso della sua popolarità e la sua esatta posizione nel folklore contemporaneo. E c'è, in Orwell, un indubbio segno di apprezzamento nel riconoscere in Popeye quell'impulso fuori moda che, tuttavia, ispira frequentemente la morale dell'uomo comune ancora ai giorni nostri (ma fino a quando?): il sentirsi facilmente dalla parte del Vunderdog (del diseredato), dalla parte del debole contro il forte. Orwell vede il suo Braccio di Ferro in buona compagnia: non insieme a Rabelais e a Kafka, naturalmente, ma con Robin Hood, con Topolino, con lo Charlot di Chaplin. Sono tutte reincarnazioni, egli dice, di quello che è forse il mito fondamentale dei popoli di lingua inglese (anche se la sua origine è certamente teutonica): Jack the Giant-killer, l'Ammazza-giganti. È curioso rilevare che esiste, infatti, una versione disneyana della fiaba, appunto con Topolino protagonista, nelle vesti del piccolo sarto che sconfigge un feroce e stolido gigante. È poi, se vogliamo, la stessa matrice della storia di Davide e Golia, ma Orwell vi scorge comunque l'archetipo del classico racconto di avventure di tutta la letteratura inglese, nel quale l'eroe si batte avendo le probabilità contrarie. Il fascino dell'impresa temeraria e in definitiva vittoriosa del piccolo uomo che sfida il potente non sta solo nell'odio per la sopraffazione, ma anche nella tendenza, molto diffusa nei paesi anglosassoni, a sostenere il più debole per il solo fatto che è il più debole. Di qui l'ammirazione per « chi sa perdere », estensione a ogni vicenda della vita di un principio eminentemente sportivo.

In effetti, Braccio di Ferro e Topolino hanno molto in comune: anzitutto la loro disponibilità fisica, materiale e psicologica a ogni impresa, viaggio, avventura. Un donchisciottesco imperativo a correre in difesa dei deboli e degli oppressi: più didascalico, un po' scoutistico in Topolino, intriso di bruschi pudori e di mugugni autodeprecativi in Braccio di Ferro. Una stessa idea dell'America nei rispettivi creatori, che si riflette nella varietà dei contesti e dei paesaggi che fanno da sfondo alle singole avventure. È la visione ottimistica dei pionieri, mai dubbiosa del sussistere di un rapporto di pertinenza fra l'uomo e il suo destino, e perciò estremamente
pragmatica, rispettosa di ogni tipo d'azione, dal bricolage all'esercizio della forza bruta. Un teatro ideale per una narrativa avventurosa che non soffre certo di privazioni: nei ghetti urbani o negli spazi sconfinati, sul mare o nelle isole più remote, nulla è precluso all'eroe. Anche la legge, il più subdolo baluardo del potere, soccombe alle esigenze pratiche della missione in corso: c'è sempre un giudice bonario a ratificare un'appropriazione indebita, un gendarme tenero o tonto ad agevolare una fuga.
Delle due grandi saghe a fumetti degli anni trenta, tuttavia, quella di Braccio di Ferro resta la più refrattaria alle classificazioni, la più imprevedibile, forse la più poetica. Dove, in entrambi i cicli, risultano raggiunte quella tensione e quella verità che sono proprie di tutta la buona narrativa, le analogie cessano; solo nelle storie di
Segar qualcosa continua ad agitarsi ineffabilmente. Se le imprese di Topolino si compiono all'insegna dell’acrobazia, dell'astuzia brillante, di una sbalorditiva perizia tecnologica, c'è un senso di eterno, di faticoso e, infine, di supremamente ilare nel necessario, periodico ricorrere di Braccio di Ferro all'inverosimile forza elementare delle sue braccia nude. Se le punizioni che entrambi i nostri eroi infliggono ai loro malvagi antagonisti sono sempre sacrosante, i pugni di Braccio di Ferro sembrano avere una ritualità superiore.
E se il riposo di Topolino è la salutare sosta dell'artefice, quello di Braccio di Ferro sa trovare in se stesso motivi profondi e vitali, fino a toccare l'idillio, l'arcadia. Nessuno dei due ha un'occupazione fissa: come farebbero a partire da un momento all'altro per Nairobi o per
Demonia? Ma Topolino, nei periodi d'ozio, si aggira per casa, si dedica a lavoretti utili, probabilmente cura i propri interessi. Braccio di Ferro, invece, sa staccarsi di più dalla realtà
sociale e mondana, sa essere vagabondo e perdersi in fantasticherie la cui apparente rozzezza è solo pari alla loro meravigliosa assurdità. E i mostri ridanciani, le creature incredibili, i luoghi incantati, i prodigi che affollano le storie di Segar non hanno l'uguale nella stessa età d'oro dei fumetti, se non forse nelle tavole prestigiose del
Little Nemo di Winsor McCay.

Un altro segno dell'impatto del nostro personaggio sull'immaginazione popolare è la frequenza con cui il suo nome ricorre in filastrocche infantili, coniate in guisa di variazioni sulla sigla canora (che funge anche da grido di guerra) dei cartoni animati che lo hanno per protagonista. Ce ne informano i benemeriti coniugi lona e Peter Opie, studiosi infaticabili del folklore infantile. E può essere interessante constatare come il tipo di popolarità di cui Popeye-Braccio di Ferro gode presso i bambini anglo-americani lo accomuni ancora una volta, per le forme in cui si manifesta, a Charlie Chaplin e a Mickey Mouse. Una di quelle canzoncine, raccolta a Long Island nel 1968, suona, tradotta letteralmente, così:

« Sono Popeye, l'uomo della spazzatura,
Vivo nella pattumiera,
Mi piace andare a nuotare
Con donne dalle gambe storte,
Sono Popeye, l'uomo della spazzatura »


Annotano i
coniugi Opie, con la loro caratteristica impassibilità che « Popeye è tuttora molto vivo nella tradizione orale, ma per qualche ragione egli compare prevalentemente in versi non pubblicabili ».
Infine, per concludere questa breve rassegna dei rapporti fra Braccio di Ferro e la cultura ufficiale, va respinta l'ipotesi di una qualsiasi connessione fra il Popeye di Segar e il gangster dallo stesso nome che compare nel romanzo
Santuario di William Faulkner. In particolare, non è verosomile che Faulkner abbia mutuato il nome del suo personaggio da quello dell'eroe dei fumetti. Lo esclude categoricamente il prof. Cleanth Brooks, rifacendosi all'autorità di Robert Cantwell, secondo il quale Faulkner ebbe in mente, nel creare il suo Popeye, un tipo della malavita di Memphis di nome Popeye Pumphrey. Nati entrambi nel 1929, dunque (ma il libro
di Faulkner fu pubblicato solo nel 1931), i due omonimi non hanno nulla in comune. Solo a livello freudiano, forse, una certa confusione deve aver operato in occasione della versione cinematografica del romanzo diretta da
Tony Richardson, suggerendo di affidare il ruolo del bieco Popeye a un Yves Montand legnoso e spaesato, somigliantissimo per l'appunto a Braccio di Ferro.
Resterebbe da dire del linguaggio di Braccio di Ferro, del suo personale idioma infarcito di favolosi stravolgimenti ortografici e di spropositi madornali. A questo aspetto del personaggio ed ai connessi problemi di traduzione ha dedicato qualche appunto Evelyne Sullerot, l'autorevole studiosa della condizione femminile. Essa rileva giustamente il carattere composito di quella parlata, la cui totale scorrettezza non è a senso unico. Alla base dell'anarchia verbale di Braccio di Ferro, stanno intenti e motivazioni molteplici che, pur agendo contemporaneamente, producono fenomeni diversi fra loro e riconoscibili. Così, accanto allo slang di rigore nei fumetti, troviamo cadenze e costrutti popolari non gergali, strafalcioni che sono manifestazioni di ignoranza ed altri di sapore più astratto e divertito (storpiature di vocaboli solenni o pomposi, ecc.), abusi lessicali e fonetici esclusivamente preordinati a susseguenti giochi di parole o malintesi, espressioni goffamente auliche e termini marinareschi, ricalchi parodistici di linguaggi particolari e neologismi di perentoria disinvoltura. La Sullerot, immaginando un repertorio di materiali e convenzioni linguistiche equivalenti in francese, elenca la trascrizione fonetica alla Queneau, la parlata « paesana » dei servi in Molière o quella di Bécassine, l'argot letterario di Francis Carco e così via. L'italiano, si sa, è una lingua che ha i guai suoi, anche senza il problema della traduzione di fumetti barbari e per di più sgrammaticati. Per cui. Braccio di Ferro ha sempre avuto, da noi, un eloquio - diciamo -normale, sostanzialmente corretto, nella neo-lingua basica e colloquiale che affianca, per i compiti più umili, il buroitaliano delle occasioni ufficiali.
Solo in certe versioni recenti, apparse sulla rivista ^Linus" (alcune delle quali si ritrovano nel presente volume), si è cercato di far salvo almeno qualche strafalcione fra i più pittoreschi e funzionali, in attesa che venga messo a punto anche in Italia un apparato linguistico tale da rendere giustizia allo stile efficacissimo dell'originale.

di Franco Cavallone
prefazione dell'albo "Fino all'ultimo spinacio"
Oscar Mondadori



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